Quando l’unica fonte di riscaldamento era la legna, il mestiere del carbonaio era comunissimo in montagna e in collina. La trasformazione di legname in carbone dolce o carbonella consentiva di incrementare il rendimento calorico del combustibile e al tempo stesso di ridurne notevolmente il peso, con evidenti vantaggi per il trasporto e lo stoccaggio. Nel territorio Euganeo questa tipica attività dell’economia montana, venne praticata fin dai tempi antichi. Il comune di Padova, con decreto del 1267, imponeva agli abitanti di Carbonara – evidente l’origine del toponimo – di sospendere la produzione del carbone a causa dei gravi dissesti che questa pratica procurava ai versanti boscati. L’attività comunque continuò fino ai primi anni del ‘900, lasciando un numero imprecisato di piazzole per carbonaie, da noi dette Carbonìli, sui fianchi dei maggiori rilievi Euganei. Nel caso del Venda si possono ancora osservare una trentina di queste nicchie, alcune delle quali, sotto il sottile strato vegetale, conservano l’inconfondibile terriccio nero residuo delle passate combustioni. Molte hanno mantenuto nomi suggestivi, come: Carbonaìe dèe Piane, C. dei Sassèi, C. dea Meò’a, C. dèe Sguassaròe, C. del Menaùro, C. del Sassolungo, … Una Carbonaia richiedeva molta esperienza e grande perizia, sia nella preparazione che durante la conduzione: il carbonaio era detentore di un’arte antica e suggestiva, praticata nel silenzio e nella solitudine dei boschi, dove i gesti misurati e il rapporto col fuoco facevano assomigliare questo lavoro ad un rito “arcano”. Una piazzola scavata nel declivio a lato del sentiero e poco distante da un menaùro, ampia alcuni metri, ben livellata e delimitata da una rozza fila di pietre, era l’area dove si alzava la carbonaia. La costruzione della pira cominciava al centro, con pezzi di legno corti e grossi sovrapposti in circolo in modo da formare un fornello vuoto, alto, all’inizio, circa un metro. Attorno a questo castelletto si poggiavano, ad arte, i pezzi di legno più grossi, compiendo più giri per allargare la base, e sopra si disponevano altri due o tre livelli di rami ben ordinati, in modo la lasciar meno interstizi possibili. Alla fine si otteneva una catasta a cupola, formata da legni sovrapposti e affiancati che dal centro alla periferia diminuivano gradatamente di diametro; nel mezzo rimaneva il camino di alimentazione iniziale. Il tutto veniva coperto prima con una pacciamatura di foglie secche e poi di terra e zolle erbose. Terminata la copertura si preparava il fuoco sopra l’imboccatura e quando era partito si facevano cadere all’interno i tizzoni accesi, alimentandoli per qualche tempo. Terminata la delicata fase dell’accensione anche l’imboccatura veniva chiusa e, come segno di buon auspicio, si segnava una croce sopra. Piccoli fori erano praticati lungo la circonferenza basale per governare la combustione, facendo ben attenzione che non si sviluppasse il fuoco all’interno. Il fumo, inizialmente bianco perché carico di vapore, man mano che la combustione procedeva ed il calore aumentava virava all’azzurrognolo. Dal colore del fumo e dalla sua quantità il carbonaio capiva l’andamento della combustione e interveniva aprendo o chiudendo le bocchette laterali. La lenta combustione continuava anche una settimana; durante questo periodo i carbonari preparavano altre carbonaie. Concluso il ciclo di conversione del legno in carbone, di mattina presto, quasi al buio, le carbonaie venivano scoperte e il carbone – frantumato, vagliato e insaccato – era portato fuori dal bosco e avviato su grossi carretti verso i paesi e le città della pianura.