Tanti secoli fa la Lessinia era in gran parte occupata da una fitta foresta con qualche piccolo villaggio di pastori. Le poche vie di comunicazione erano sempre meno frequentate man mano che si saliva a quote più alte, cosicché i Monti Lessini poterono ospitare, indisturbate dall’uomo, alcune varietà di mammiferi selvatici quali la lepre, il capriolo, il cinghiale, la volpe, l’orso e il lupo. I nostri montanari erano acuti osservatori oltre che cacciatori e si trovavano ad essere dei naturalisti senza essersi prefissi di diventarlo. “La cultura popolare era altamente ecologica, perchè si prefiggeva di lasciar spazio e tempo alla conservazione delle specie animali a cui si dava la caccia, per poter così goderne poi i frutti…” ricorda Attilio Benetti nei suoi saggi apparsi su varie riviste naturalistiche e scientifiche, scritti che denotano tutto l’amore e la passione verso la Lessinia, amore e passione che lo hanno reso un luminare di fama mondiale nelle sue ricerche. Gli orsi bruni ed i lupi scomparvero nell’Ottocento e via via anche le altre specie di animali soffrirono del grande disboscamento e depauperamento di questo territorio. Il Lupo occupa un posto importante nella memoria dei vecchi. Nel dialetto dei Monti Lessini viene chiamato “Loo” e vi è una ricca tradizione popolare che riferisce casi di aggressione all’uomo ed agli animali domestici di branchi di lupi affamati. Certi fatti sono ricordati ancora da persone in età molto avanzata che avevano appreso direttamente dai loro genitori, vissuti quando i Lupi erano ancora di stanza, notizie riguardanti questi animali. Così in Lessinia circolano ancora le “Storie dei Loi”, che derivano da fatti veri e ognuna delle quali ha il suo titolo, un luogo preciso, la sua leggenda. Molte di queste storie sono state pubblicate qualche anno fa ne “I quaderni del Parco”.
“El loo domestegà col pan”
Protagonista di una singolare avventura fu un certo Tomaso Bartoldo, vissuto nell’800 a Velo Veronese: “Un tempo i nostri vecchi, quando dovevano recarsi in qualche paese anche molto distante, andavano a piedi perché solo le persone benestanti potevano permettersi il lusso di viaggiare con un cavallo o con un mulo. Erano dei grandi camminatori, camminavano intere giornate con rilevanti pesi sulle spalle, mangiavano quattro fette di polenta fredda e qualche patata e si dissetavano alle sorgenti che trovavano per strada. Anche la neve alta non li arrestava e se questa non era ghiacciata per proseguire indossavano i “sercoli” (racchette da neve) e riuscivano così ad attraversare le nostre montagne. Naturalmente se sulla strada che dovevano percorrere non vi erano frequenti abitazioni, erano prudenti e non partivano da soli. Qualche volta capitava che qualcuno rischiasse di andare da solo fidandosi delle proprie forze e della grande conoscenza del terreno. Così fu del poro Tomaso Bartoldo che dovendo recarsi ad Ala per affari, partì da solo dalla contrada Kuneck e passando per la Podesteria e la Valbona giunse a destinazione senza inconvenienti. Il giorno seguente decise di far ritorno alla sua abitazione anche se nell’aria si sentiva l’odore di una forte “frada” in arrivo. Partì presto al mattino ed infilò la Valbona, dopo un’ora di strada incominciò a nevicare. Finchè si trovò a camminare sul fondovalle non era tanto difficile proseguire e così il povero uomo non si rese conto di quello che lo aspettava poi, altrimenti avrebbe fatto ritorno ad Ala. Ma giunto che fu nella parte alta della valle, il vento non più ostacolato dal bosco faceva mulinello intorno all’uomo, che ogni tanto doveva fermarsi ed avvolgersi bene nel suo tabarro per non essere soffocato. Sentendosi ancora in forza, decise con ostinatezza di proseguire e quando si accorse che in questo modo poteva lasciarci la pelle, ormai era troppo tardi per tornare indietro. Sulla strada poteva trovare dei baiti, ma era difficile che fossero aperti perché i malgari usavano chiuderli a chiave quando scendevano con le bestie dai pascoli. Soltanto nella contrada dei “Spiazzoi” vi era una vecchia osteria che veniva lasciata aperta d’inverno, anche se l’oste non c’era, per dare la possibilità ai viandanti di rifugiarsi in caso di bufera. Dopo sforzi sovrumani giunse alla malga di Campolevà e qui si fermò e si appoggiò sul bastone da viaggio pensando che ormai l’unica cosa che gli restava da fare era quella di raccomandarsi l’anima a Dio. Mentre faceva questi tristi pensieri, vide un Lupo che avanzava lentamente verso di lui. La presenza di questo feroce animale gli mise in corpo nuovo vigore e tentò il possibile per difendersi. Ma la bestia si arrestò a una decina di passi pronta per attaccare l’uomo. Sapendo che il Lupo quando non è affamato non assale mai l’uomo, il poveretto pensò di sfamarlo: nel suo tascapane aveva ancora quasi intiera una grande focaccia fatta con uova, burro e lardo e così si sganciò il tascapane e tolse un pezzetto di focaccia e lo gettò contro il Lupo. La bestia stette ferma un attimo, poi l’annusò e infine lo mangiò. Visto questo l’uomo prese il coraggio e continuò in questa operazione fino a consumare mezza focaccia, poi proseguì sul suo cammino con un occhio davanti per controllare la strada ed uno di dietro per spiare le mosse del Lupo. Strada facendo, per fermare ogni tanto il Lupo ad una distanza non pericolosa, l’uomo lasciava sul suo cammino altri pezzetti di focaccia che l’inseguitore ingoiava subito con manifesta ingordigia. Giunto vicino all’Osteria dei “Spiazzoi”, dove se avesse potuto entrare sarebbe stato salvo, vide con grande terrore il Lupo spiccare due lunghi salti e scomparire nel buio della notte. Con questo si credeva ormai sicuro che il Lupo non sarebbe più ritornato, ma si sbagliava perché poco dopo comparve nuovamente saltellando intorno a lui e scodinzolando come un cane quando fa le feste al padrone. Questo insolito modo di fare non convinceva il montanaro che si trovò per un momento nell’imbarazzo, ma poi vedendo che la porta dell’osteria era vicina pensò di gettare il resto della focaccia al Lupo per fermarlo ed avere così il tempo necessario per entrare nel rifugio. Tutto gli andò bene e quando fu dentro si accorse guardando dalla finestra che il Lupo si era accovacciato davanti alla porta dove rimase fino all’alba.”